una storia sbagliata

Una storia sbagliata

Tempo di Lettura: 4 minuti

Dispetto #51 – La settimana peggiore della mia vita

Quando un anno fa ho deciso di aprire questo blog, ho pensato che parlare delle mie sfortune avrebbe aiutato a esorcizzarle.
In realtà devo dire grazie a unobravo.com e alla mia psicologa.
Questa voglia di riderci sopra era ed è un modo di raccontare le cose e sperare di essere d’aiuto a qualcuno.
Adesso pare più semplice, ma esattamente tre anni fa di questi tempi ero dentro la settimana peggiore della mia vita. La vissi come una totale ingiustizia, quella che doveva essere la mia vita perfetta si era trasformata in una storia sbagliata.

una storia sbagliata
è una storia sbagliata, non rispondere.

C’è stato un momento nella mia vita in cui pensavo di essere arrivato.
Avevo un lavoro a ottocento metri da casa.
In quegli ottocento metri c’erano:

  • il ristorante per la pausa pranzo pagato dall’azienda
  • la palestra
  • il centro commerciale per la spesa
  • le scuole per eventuali figli
  • il cinema per le serate in cui divertirsi
  • il mio ristorante di sushi preferito

Non avevo grosse spese, una vita tranquilla, un lavoro ben retribuito. Insomma, ero socialmente invidiabile. Forse avevo strappato lungo i bordi, o ero rimasto fermo, non lo so.

Sono sicuro di aver detto questa cosa troppo forte, tipo “Ho una vita invidiabile”, a qualcuno devono essere girate le palle, perché tutto ha cominciato ad andare a ramengo.
Non sapendo chi fosse la persona con cui prendermela ho passato in rassegna i potenziali colpevoli: i poteri forti? No, io non sono complottista.
Quelli del piano di sotto?
Il collega insopportabile? No, tutte queste persone non potevano avere questo potere.
Mi rimaneva il proprietario del più grande franchising della storia. Quel ciclope coi lati uguali in mezzo al cielo, per citare Dente ne La settimana enigmatica.

Esattamente tre anni fa, mentre tornavo a casa dall’ospedale dove mio padre era in terapia intensiva, all’altezza di un semaforo rosso ricordo di aver guardato il cielo e detto: “Se lo fai morire vengo di sopra e ti ammazzo di botte”. Mi sentivo tipo San Gennaro nella canzone di Federico Salvatore, che decide di fare a botte con Sant’Ambrogio.
Proprio come in quel famoso pezzo gli avrei dato quel “misto tra un cazzotto, un pacchero e un papagno”.

Pochi giorni prima era finita in qualche modo la migliore storia della mia vita, anche se non eravamo riusciti a dirci addio.
Dirsi addio è veramente difficile, non è come disdire la pay-tv (che comunque non è una cosa facile da fare), non riuscivo a capire come quella storia così perfetta d’improvviso fosse diventata una storia sbagliata.
Non sapevamo più in che lingua parlare, “siam passati da telepatia a non sentirci come in galleria” citando il Peyote.

Due giorni dopo papà avrebbe dovuto fare un’operazione di doppio bypass al cuore. Nei giorni prima, come su tutte le cose della vita, ci siamo presi in giro.
“Pà, allora hai paura? Guarda ti lascio 3€ nella giacca, così se vuoi un caffè te lo puoi andare a prendere”
“Me lo prendo dopo l’operazione”
“Se la superi”
Risate come due idioti, perché noi siamo fatti così, quando una cosa ci fa paura ci ridiamo sopra.

Se ripenso a quante volte ho mandato in vacca momenti intensi perché semplicemente sono un timido che quando una cosa lo tocca nel profondo, come la paura di perdere la persona più importante della sua vita, ci ride sopra.
Il giorno prima dell’operazione Pà mi ha abbracciato perché era appena quasi finita la mia storia più importante, io ho abbracciato lui perché non stava andando incontro ad una passeggiata di salute.

L’operazione sembrò andare bene, ma due giorni dopo entrando in terapia intensiva vidi mia madre con il volto teso. Capì che era una storia sbagliata.
Il giorno prima ci avevano detto che sarebbe uscito entro il pomeriggio, invece era ancora lì e mia madre con quel volto.
Arrivato in stanza scoprii che il lato sinistro di mio padre era bloccato. Non riusciva a muovere un solo dito. Io speravo di vedergli muovere il pollice, tipo Beatrix sulla Pussy Wagon.
“Pà, muovi questo pollice” e lui muoveva l’altro piede. “No, papi, questo di piede dai”. Niente, sempre l’altro.

Mi fece strano vedere mia madre fare le domande più ovvie a papà: “Come si chiamano i tuoi figli?”, “Come si chiamano le tue sorelle?”. Avrei voluto dire “Mamma ma cosa cazzo gli chiedi mica è scemo” perché ancora non capivo la gravità della situazione.
Ad un certo punto ero seduto ai piedi del letto, papà teneva la mano alla mamma o era il contrario non lo so. So che entrambi in quel momento con gli occhi si sono detti “Non mi abbandonare”.
Mentre la mia storia della vita stava finendo, loro stavano insieme nel dolore più grande.

Quella notte non tornai a casa, il giorno dopo mia madre che mi urlò in faccia “Vi siete resi conto che papà è grave”. Io non lo avevo ancora capito.
Ero stordito sul ring in cui stavo facendo a botte con l’altissimo, per tutti i destri che mi stava tirando. Mi sentivo come il pistolero davanti a Trinità.
Se mi avessero detto “Non ci hai capito niente, te lo rifaccio?” avrei detto anche di sì.

Una settimana dopo questo evento sarei dovuto andare a chiudere definitivamente la mia storia più importante.
Non avevo assolutamente la forza di farlo.
Di tutte quelle ore ricordo solo di aver detto “Non me la sento di continuare” e senza riuscire a finire la frase essere scappato in bagno a vomitare per il dolore.

Nei giorni successivi al lavoro ero spesso in bagno a piangere, rispondevo “Faccio del mio meglio” alla domanda “Come va’?”. Però alla fine è stato ancora Gigi a tirarmi fuori da questa storia sbagliata che stava succedendo.
Tutti quelli che venivano a trovarlo in ospedale continuavano a ripetere “Dai Gigi che ce la facciamo”, e lui dal letto un giorno disse “Tutti a dire ‘dai che ce la facciamo’, come se sta fatica la devono fare loro”. Ridemmo, ovviamente.
Ci facemmo anche una maglietta, nei momenti difficili la tiriamo fuori.
Perché essere scaramantici è da ignoranti, non esserlo porta male. Citando il maestro.

Ogni tanto per prenderlo in giro dico che quest’ictus è un dono di Dio come la mano persa dal papà di Trosi in Ricomincio da Tre – non pregate per me, visto mai voglia fare un regalo pure a me, cit.
“Pà, è un disegno di Dio che non capiamo”
“Ma non poteva continuare a scrivere libri? Ha venduto un sacco con il primo. I disegni gli escono una chiavica”

Questi anni di ospedali, paure, speranze, lacrime e amici mi hanno fatto capire che tutti hanno un dramma personale. Ognuno lo vive come crede, io lo vivo in maniera diversa dai miei fratelli, non penso ci possa essere un giusto o sbagliato in queste cose.

Non ti chiedo di raccontarmi la tua, ti auguro solo di avere un Gigi che ti aiuti a riderci sopra.

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