Dispetto #43 – Trovarsi da suonare
Ho detto altre volte che tra le mie tante passioni c’è anche quella della musica. Quando ho parlato del talento o della GerontoRockBand di cui facevo parte.
I miei progetti musicali sono stati tanti, alcuni in gruppo, altri in solitaria. A volte ho fatto il salto della staccionata e sono passato dal lato dell’organizzatore, ho addirittura fatto il promoter.
In buona sostanza spesso e volentieri mi sono trovato davanti a baristi che fungevano da direttori artistici dei propri locali e tutti che ripetevano la stessa domanda: “Quanta gente porti?”

I musicisti sono una razza strana. Tutti con un ego inspiegabilmente grande, più su del cielo e più sul del mare, come cantano Le Endrigo qui.
Una cosa che equivale ad un reato di lesa maestà è chiedere quante persone porteranno ad un loro live.
Sono tutti convinti di aver diritto ad un palco solo perché esistono e ci raccontano le loro vicende.
Lo dico da appartenente alla categoria, siamo tutti convintissimi di avere qualcosa di interessante da dire e andiamo sul palco a farlo.
Nessuno si è mai fermato a chiedersi se a qualcuno freghi qualcosa di quanto ci abbia fatto soffrire quella tipa in quinta elementare che non ha diviso con noi la sua merendina?
Certo sono peggio quelli che per raccontarci il dolore provato la sera in cui non han trovato lei adorante sotto casa, sono dovuti andare a piedi in spiaggia.
Perché soffrire da soli in camera come faceva Troisi non vale. L’anima divelta pare abbia senso solo davanti a enormi distese d’acqua.
Il mare nelle canzoni è sopravvalutato.
Pare sia un #purosharewithfriends (solo per la Stazione Indiependente) non richiesto.
Eppure i nostri amici musicisti, superati ormai di gran lunga dai podcaster e, diciamolo, anche dai blogger, sono convinti che raccontarci le loro peripezie sia in qualche modo interessante.
Lo sarebbe se le cose fossero scritte bene. Perché una canzone, un podcast o un testo ci piace quando noi possiamo sentirlo nostro. Nel contatto tra i sentimenti raccontati con quelli che proviamo.
Quando “capire tu non puoi, tu chiamale se vuoi emozioni” (questo link aprilo a fine articolo e dedicati 4:57 di magia, te li meriti).
I gruppi Facebook fatti da musicisti o aspiranti tali pullulano di discussioni in cui si da contro questo o quel gestore di locali perché in un moto di sopravvivenza ha osato chiedere ai nostri: “Quanta gente porti?”.
Vilipendio, come si osa chiedere una cosa del genere. Piuttosto dimmi tu quante gente mi fai trovare davanti.
Nessuno si è mai fermato a pensare: “Io vengo a suonare un po’ per Hobby, lui con il suo bar ci deve vivere. Io gli chiedo 200€ di cachet, 150€ di siae, la cena gratis e gli porto 5 persone che bevono acqua del rubinetto”. Non è oggettivamente un grande affare per un locale.
Quando ho provato a farlo notare mi è stato detto “Che è un problema loro, è loro il rischio di impresa. Noi dobbiamo essere valutati per il nostro valore artistico“.
Come lo misuri il valore artistico? Su quante volte mamma ti ha detto “bravo” o sui presenti in sala?
Pensi che il signor Mario abbia ascoltato il demo che gli hai lasciato mentre spillava birre o abbia pensato all’iva da versare il 16 del mese?
Chiederti “Quante gente porti?” è il minimo.
Anche questa, come le altre, resta una domanda senza risposta.
Con questi presupposti ho affrontato molti concerti.
Prendendo solo la mia chitarra e andando a suonare ovunque mi dicessero ci fosse un posto. Solo io e lei. Cachet dagli 0 ai 100€.
Un giorno ho visto questo video di Ed Sheeran e ho pensato di poterlo imitare in qualche modo. Illuso.
Ho cercato di dare un buon motivo alle persone di starmi ad ascoltare, ho cercato di essere un minimo interessante. Ho abbellito le mie canzoni, ho provato a creare uno show. Sempre conscio del mio valore. Non artistico, ma commerciale.
Non tutti i gestori però sono persone serie, come non tutti i musicisti lo sono.
A volte penso che abbiano deciso anche loro di gestire un locale una sera dopo una passeggiata davanti al mare o lago.
Probabilmente alle prossime elezioni voterò quel partito che vieta le lunghe passeggiate ispirazionali davanti a grandi distese d’acqua.
Chissà quante cose brutte e banali ci risparmieremmo in questo paese.
Uno di questi gestori ispirati una volta mi chiese di suonare in uno spazio a lui riservato ad una festa di paese. Un paese a 30km di curve dalla vita (magari solo 6, Samu).
Arrivo al paese con la mia chitarra.
All’ingresso un ragazzo, vedendomi arrivare, mi chiese chi fossi e io candidamente “Quello che deve suonare qui”.
Sguardo un po’ perso, aria investigativa.
“Non sapevo qualcuno dovesse suonare oggi”, la sentenza.
“Mettiti lì” e mi indica una stalla.
All’interno una capra. Il mio pubblico.
Faccio vedere i messaggi, dico che mi era stato detto di venire a quell’ora per suonare perché c’era in previsione un evento.
Lui mi dice di aspettare.
Nel frattempo l’attenzione sua, della capra e di una signora che passava di lì per caso si spostano su un uomo che non si faceva la barba da circa 66 anni. Tutti molto ammirati.
Intanto io aspettavo come Fiorello quando dice “Cadono dall’orologio i battiti”, ma non c’era nessun “Finalmente tu”. Del gestore nemmeno l’ombra.
Allora aspettavo, come il protagonista di Sfiorivano le Viole – oggi ne ho messe troppe di citazioni, ma che ci posso fare, mi piacciono – tutto stava iniziando in maniera un po’ perversa, ma non vedevo occasioni per amare.
La capra rideva di me come a dire “Io qui ci devo stare per forza, te invece ci sei venuto e pure gratis”, io la guardavo come Clemente Russo guardava una sua parente a La Talpa (ndr: non ho trovato il video ma vi giuro esiste lui che urla “Chi è più forte!?” ad una capra)
Alla fine, dopo tre ore di attesa, decisi di andarmene. Lasciai la barba di 66 anni, la capra e la stalla.
Senza suonare, senza rimborso e senza nessuno che fosse venuto a vedermi, ma questo lui, la capra e la barba non lo sapranno mai.
La domanda “Quante gente porti?” è lecita amici, se siete sicuri della risposta non dovete temere niente.
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