Dispetto #72 – Il catcalling
Nel momento in cui sto scrivendo vicino a me c’è un mazzo di mimose, il fiore con cui tutti quanti identifichiamo l’otto Marzo. Nessuno sa se questi puntini gialli su stelo verde esistano anche in altri giorni dell’anno, nessuno ne ha mai neanche visto un campo probabilmente.
Sapere realmente da dove escano e dove si trovino le mimose è un mistero, pari al Chupacabra o allo gnomo armato di ascia. Stupisce che Giacobbo non ci abbia fatto ancora una puntata. “Le mimose erano nel santo Graal”.
Pensando alla giornata internazionale della donna, volgarmente detta Festa della Donna, mi sono chiesto: di cosa posso parlare? Via di sondaggio Instagram anche questa volta. Tre gli argomenti, tutti con un unico filo conduttore: se l’otto Marzo è un giorno di lotta, lottiamo insieme, contro lo stesso nemico, fianco a fianco. Ha vinto l’argomento: il catcalling, istruzioni per l’uso. Prima cosa da sapere: non è un complimento.

Sono nato nel 1985 e come tutti quelli nati nel mio anno vivo a metà. Ho fatto in tempo a giocare in cortile e alla playstation, visto gli anime anni ’80 e i Pokemòn, usato Clippy e Siri.
Soprattutto sono cresciuto in un mondo dove chiamare una persona di colore “VuCumprà” era normale, l’inglese ti veniva insegnato poco e male a partire dalle medie, dopo la terza media a molti di noi veniva detto: “Ma vai a lavorare, cosa studi a fare”.
In pochissimo tempo tutte queste cose con cui sono cresciuto fortunatamente sono cambiate.
Di quel tempo ciò che ancora resiste è la disuguaglianza tra uomo e donna. Le mamme dei miei compagni di scuola spesso non lavoravano. Facevano il turno in oratorio al bar, volontariato.
Sembrava tutto in un equilibrio perfetto: l’uomo andava a lavorare, la mamma curava il focolaio*. Io sono cresciuto con questo modello.
La donna era preda, l’uomo era cacciatore. Questo ci sembrava l’ordine naturale e inconfutabile delle cose.
Un giorno, era estate, ero in giro con lo ZioComplottista e passammo per una zona molto turistica, quindi con tante ragazze per strada.
Mentre mi stava parlando non ricordo di cosa, passò una ragazza. Lui non si interruppe dal parlare con me, semplicemente mise nel suo fiume di parole la frase “Oh vedì che DO di petto quella” e suonò il clacson. In quel momento, forse per i molti ascolti di Guccini, mi sentii come Beethoven che aveva scritto “La decima sinfonia senza do”, ma sentivo che il patriarcato era come l’associazione “Gli amici delle sette note”, sentendomi obbligato a farmi piacere il Do e questo elogio suonato.
Se devo dire un momento della mia vita in cui ho iniziato a sentire che quell’equilibrio a cui ero abituato fosse sbagliato, fu quello.
Durante l’adolescenza, d’estate, con i miei cugini, andavo a fare delle passeggiate nel centro del paese: in pratica un posto che sta al catcalling come le parenti indoor stanno all’arrampicata.
Era un campo di addestramento per follower di Pastorizia Never Dies. I ragazzi sulle panchine guardavano le ragazze passeggiare: “Ué bella”, un paio di fischi e la speranza di un gesto che stesse a significare apprezzamento.
In quel caso, si doveva scendere dalla panchina, seguirle e come Troisi far capire di aver capito. Io ovviamente non trovai mai una ragazza in questa maniera. Mi sentivo a disagio. Pensavo di essere io quello sbagliato.
Un paio di anni fa Aurora Ramazzotti fece un video denuncia dove dichiarava di essere perenne vittima di catcalling, sottolineando come non lo vivesse come un complimento, ma un qualcosa che invece la inibiva e impauriva.
Tralascio i commenti al video di chi le disse: “Ringrazia Dio che sei un cesso e ti caga qualcuno”.
Uno di quei pomeriggi alla radio ascoltai un DJ, maschio, bianco ed etero come me. Lui disse: “Beh ragazze, facciamoci un po’ di forza, perché alla fine uno che fa così per la strada è un cretino. Uno a cui non dare peso”. Mi trovai d’accordo. Insomma, noi due maschi bianchi ed etero ci trovavamo d’accordo: chi fa catcalling è stupido, ma insomma femmine un po’ di spalle larghe.
Quella stessa sera, durante una videochiamata con i miei amici e le mie amiche dell’improvvisazione teatrale, tirai fuori l’argomento.
Sono certo che come me altri pensavano: “Insomma sono dei cretini quelli che fischiano, perché date loro peso?”.
“Partendo dal presupposto che è sbagliato, nessuno qui vi dirà ‘è un complimento’. Serve essere forti, perché tanto quegli stupidi non li cambi, dovete cambiare voi“. Il nostro pensiero poteva riassumersi così.
Introdotto il discorso facemmo una cosa che però ci distingueva dai fischiatori di strada: ascoltammo.
Fu una mezz’ora in cui l’atmosfera caciarona e al cazzeggio che contraddistingueva le nostre chiamate cambiò: ognuna delle ragazze presenti aveva un racconto, un’esperienza a riguardo.
Forse ancora più del sentire quelle testimonianze, a farmi riflettere fu il vedere come durante il racconto di una, un’altra o altre due si ritrovavano in quelle parole. “Anche a me… anche a me”. Divenne tutto così vicino da dovermi toccare per forza.
Capii questa cosa così facile: non è la vittima a dover cambiare, ma noi a dover cambiare i carnefici.
Dicendo ad uno ZioComplottista che suonare il clacson è da idiota, facendo capire ai fischiatori sulle panchine il loro errore. Semplicemente ricordando quella semplice parola: rispetto.
Un fischio, una mano sul clascon non è rispetto. Non è un complimento.
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*è voluto che si dica uomo e mamma, perché l’idea è proprio di far passare il messaggio di donne viste solo come madri angeli del focolare.